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lunedì 15 febbraio 2010

Santa Maria delle Grazie





Milano, Santa Maria delle Grazie e il Cenacolo di Leonardo da Vinci

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Il Cenacolo di Leonardo da Vinci in Santa Maria delle Grazie

Nel 1463 il capitano delle truppe Francesco Sforza donò ai Domenicani un terreno sul quale sorgeva una cappella con affrescata l’immagine della Madonna detta delle Grazie. I frati incaricarono Guiniforte Solari di costruire una chiesa ed un convento e i lavori ebbero inizio nel 1463.
Il nuovo signore di Milano, Ludovico il Moro, decretò di ampliare la chiesa, fece abbattere l’abside e il presbiterio e per eseguire i lavori chiamò Donato Bramante. Questo architetto di Urbino ampliò la struttura della chiesa aggiungendo grandi absidi semicircolari, una cupola a tamburo circondata da colonnati, uno splendido chiostro e il Refettorio. Pare che Bramante abbia studiato la disposizione delle finestre di quest'ultimo per ottimizzare la luce in vista della realizzazione del Cenacolo da parte di Leonardo che terminò l'affresco nel 1497.
Per la raffigurazione, Leonardo da Vinci sceglie il momento immediatamente successivo a quello in cui Cristo annuncia: "Uno di voi mi tradirà". I dodici apostoli reagiscono in modo diverso, i loro movimenti e le loro espressioni sono rese magistralmente da Leonardo. Egli si concentra sulle emozioni che le parole di Gesù suscitano negli apostoli e sulle loro reazioni.
L’invenzione del pittore nasce innanzitutto dall’utilizzo della luce e dal forte indirizzo prospettico. Alle spalle dei commensali si aprono tre finestre, oltre le quali si intravede un paesaggio, da cui proviene un’atmosfera luminosa che nella controluce illumina i protagonisti anche ai lati, conferendo all’insieme una prospettiva del tutto particolare.
Nelle rappresentazioni classiche Giuda, il traditore, era raffigurato da solo mentre gli apostoli e Gesù erano tutti dall’altro lato, uno accanto all’altro. Leonardo abbandona questo stile e rappresenta Giuda in mezzo agli altri apostoli, crea inoltre quattro gruppi di tre figure ai lati di Gesù, che sta al centro. A partire da sinistra: Bartolomeo, Giacomo il minore e Andrea attoniti per la dichiarazione di Gesù. Il secondo gruppo vede raffigurati Pietro, Giuda e Giovanni. Pietro si protrae verso Giovanni, seduto al fianco di Cristo, spingendo in avanti Giuda. La figura di quest’ultimo, quindi, è messa in evidenza senza essere isolata dagli altri. Nel gruppo a destra vengono rappresentati Matteo, Taddeo e Simone che discutono animatamente senza guardare Gesù. Verso il centro ci sono, protesi verso Gesù con espressioni perplesse, Tommaso, Giacomo il Maggiore e Filippo impegnati a rassicurare Gesù sulla propria fedeltà.
Centralmente troviamo la figura del Cristo, punto di fuga della prospettiva dell’affresco.
Purtroppo il maestro non dipinse ad olio, bensì a tempera su una preparazione a due strati di gesso che non ressero all’umidità. Già intorno al 1568 il Vasari faceva notare i problemi legati a questa tecnica.-


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Forse per una sorta di snobismo intellettuale

Forse per una sorta di snobismo intellettuale - non voleva essere considerato alla stregua di un bottegaio cui si poteva commissionare un lavoro qualunque - o forse per un genuino ardore di scoperta.
E sempre lo stesso metodo ritroviamo nella messa a punto di fortificazioni, macchine da guerra, pompe per sollevare l’acqua, macchinari per la lavorazione degli specchi: le sue invenzioni realizzate e quelle soltanto progettate sono annoverate tra le più affascinanti produzioni della mente umana di ogni epoca.

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Leonardo da Vinci - Cameriere e capocuoco ?

Leonardo da Vinci
Cameriere e capocuoco?
Voleva sostituire alle mangiate medievali un vitto più fine, in armonia con lo spirito rinascimentale


Leonardo da Vinci ha fatto anche il cameriere e capocuoco? Ebbene sì, ma pochi lo sanno.

"Era tanto piacevole nella conversazione che tirava a se gl'animi delle genti. E non avendo egli, si può dire, nulla, e poco lavorando, del continuo tenne servitori e cavalli, dé quali si diletto molto, e particularmente di tutti gl'altri animali, i quali con grandissimo amore e piacenza governava."
Così il Vasari descrive ne "Le vite", Leonardo da Vinci il veramente mirabile pittore, scultore, teorico dell'arte, musico, scrittore, ingegnere meccanico, architetto, scenografo, maestro fonditore, esperto d'artiglieria, inventore, scienziato. Nacque nel 1452, dal padre Piero, colto notaio e dalla madre Caterina, giovane contadina al servizio dei Da Vinci.
Leonardo fu allevato, esclusivamente dal padre, nella campagne di Vinci e nei suoi primi 15 anni fu libero di osservare la bellezza del paesaggio agrario e ammirare il lavoro dei contadini, dai quali poi da adulto avrebbe preso l'ispirazione per ideare macchine agricole, frantoi meccanici, aratri per "andar diritto" e macine per il grano. La sua vita ebbe una svolta nel 1576 quando il padre, che rivestiva un ruolo importante nella cerchia della potentissima famiglia Medici, lo fece trasferire a Firenze. Qui Leonardo, attratto dall'irradiante bellezza di una città traboccante d'opere d'arte, si interesso alle molteplici tecniche che nelle "botteghe" venivano sperimentate, sviluppando un talento artistico del tutto speciale. Fu così che il padre, accorgendosi delle doti del figlio e nonostante lo volesse notaio, si decise a contattare una dei migliori maestri dell'epoca: "Mastro Verrochio". A diciassette anni il "vecchio" Leonardo, era finalmente a bottega . Da allora e per molti anni, lavorando anche a Milano , Roma e in Francia, ebbe l'occasione di esprimere il suo immortale genio, grazie all'inestinguibile curiosità di studiare, disegnare, sperimentare, prendere appunti, progettare macchinari.
Vogliamo adesso raccontarvi una storiella fiorentina sulla vita di Leonardo. Da giovane, poco più che ventenne, sarebbe stato assunto come cameriere nella 'Taverna delle tre Lumache', in prossimità del Ponte Vecchio. Successivamente promosso capo cuoco, inventò alcuni marchingegni per pelare, triturare e affettare i vari ingredienti, studiando anche il modo di mandare via i cattivi odori e costruendo un apparecchio per automatizzare l'arrosto. Purtroppo le sue innovative pietanze, disposte in piccole quantità nei piatti con gusto artistico, non ebbero successo, costringendolo all'abbandono dell'attività culinaria. In pratica alla vecchia consuetudine delle mangiate medievali, Leonardo voleva sostituire un vitto più fine, in armonia con lo spirito rinascimentale.


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mercoledì 3 febbraio 2010

I manoscritti di Leonardo



I manoscritti di Leonardo

Il 2 dicembre 1918, il Ministro della Pubblica Istruzione, Berenini, informava il Ministro degli Esteri, Sonnino, che il Sindaco di Milano, Caldara, chiedeva al Governo di intervenire presso le Autorità francesi per ottenere che i manoscritti di Leonardo, asportati nel 1796 dall'esercito napoleonico, fossero restituiti alla Biblioteca ambrosiana. Interpellato al riguardo, l'Ambasciatore a Parigi, Bonin Longare, così rispondeva a Sonnino nel gennaio 1919:

«La sorte dei manoscritti in parola può paragonarsi a quella di tutte le opere d'arte che furono dall'Italia trasportate in Francia nel 1796. Ricorderò a Vostra Eccellenza a questo proposito, che molte di queste opere d'arte passarono in Francia in virtù di convenzioni formali conchiuse, segnatamente, con il Papa, con il Duca di Parma, colla repubblica di Venezia. Nel 1815, quando gli Alleati entrarono a Parigi, la restituzione di quelle opere fu domandata, ma a questa domanda Talleyrand rispose con un rifiuto, facendo osservare che le opere stesse erano state cedute mediante un trattato. Vostra Eccellenza non ignora che in seguito al rifiuto, gli Alleati penetrarono con violenza nel museo del Louvre e presero gli oggetti reclamati. La condotta degli Alleati fu biasimata, specialmente in Inghilterra, ove il Deputato Sir Samuel Romilly, alla Camera dei Comuni, pronunciò parole severe sul brutale procedimento. Nella dottrina l'atto degli alleati fu generalmente criticato, in virtù del principio, dominante nella materia, per cui si ritiene inaccettabile la rivendicazione di oggetti d'arte passati da un paese ad un altro, quando il passaggio sia stato sanzionato da un trattato. Al contrario si considera ammissibile il reclamo quando le opere d'arte siano rapite, come bottino di guerra, in seguito a vittorie militari. In omaggio a quest'ultimo principio il Governo francese aveva deciso che tutti gli oggetti presi in seguito all'azione militare esercitata in Cina nel 1900 dovessero essere restituiti al Governo cinese. I regolamenti dell'Aja confermarono questo principio: "Toute saisie, destruction ou dégradation intentionnelle de monuments historiques, d'oeuvres d'art et de sciences est interdite et doit être poursuivie." Sulla speciale quistione dei manoscritti di Leonardo da Vinci, non mi è stato possibile di avere qualche indicazione, anche indiretta, circa l'accoglienza che questo Governo potrebbe fare a un reclamo, e bisogna vedere se e come le norme generali di cui sopra, che sono accettate in Francia, possano applicarsi al caso. I manoscritti in parola non furono presi in modo da potersi dire che l'esercito francese se li appropriò come bottino di guerra. Il concetto della forza che, nonostante trattati e convenzioni, si trova sempre all'origine di questi passaggi di possesso, fu alquanto mascherato dal vincitore, e le forme legali che accompagnarono la consegna dei manoscritti escludono che si possa parlare di vera preda o bottino di guerra. Bisogna dunque prevedere che a una domanda di restituzione la Francia opporrà la tesi già sostenuta dal Talleyrand, basandosi sul trattato di Campo-Formio che consacrò i risultati ottenuti dagli eserciti francesi sull'impero d'Austria. La restituzione parziale avvenuta nel 1815 non sarebbe da questo Governo riconosciuta come un valido precedente. Non sembra dubbio che tale restituzione sia avvenuta in seguito ai fatti di violenza, più sopra ricordati, e sarebbe difficile opporre alla Francia un atto di violenza che essa fu dalla forza costretta ad accettare. Non solo, ma non sarebbe del tutto da meravigliarsi se l'accoglienza che incontrerà la nostra domanda si risentisse del ricordo degli avvenimenti del 1815. Conviene pertanto preveder un rifiuto, e studiare se, alle eccezioni più o meno giuridiche che saranno opposte alla domanda del Governo italiano si possa rispondere con valide ragioni. Valenti autori francesi considerano che sia preferibile di non abusare della forza per farsi consegnare oggetti di pregio, sanzionando la consegna con un trattato, e dandole persino la qualità di cessione. Ma questa è un opinione di ordine morale piuttosto che giuridico, e tutti sono concordi nell'ammettere come legalmente attributivo di proprietà il trattato che mette fine alla guerra e risolve, anche implicitamente, le diverse questioni pendenti tra i belligeranti. All'ostacolo giuridico costituito da questa opinione, si aggiunga la ripugnanza a stabilire un precedente che potrebbe in avvenire essere sfruttato a favore di altre, fra le innumerevoli opere d'arte che furono dai francesi prese in Italia. L'esempio della Gioconda, ricordata dal Sindaco Caldara, nella sua memoria, prova quanto viva sia sempre in Italia la quistione delle opere d'arte prese dalla Francia, e non si vorrà certo accondiscendere ad una restituzione volontaria che potrebbe essere interpretata a favore della tesi italiana su questo importante argomento. Per superare questi ostacoli l'Italia può addurre considerazioni d'ordine morale, invocare il rispetto del patrimonio intellettuale della Nazione; ma dubito che ciò valga a persuadere il Governo Francese a modificare un contegno di cui diversi tentativi fatti nel passato servono a dimostrare la natura irriducibile. Vostra Eccellenza vorrà esaminare se convenga nelle attuali circostanze, far sorgere una quistione nella quale è molto dubbio che la tesi italiana possa trionfare e che genererà un dibattito la cui opportunità potrebbe concepirsi solamente nel caso di un sicuro successo».
(Bonin Longare a Sonnino, Parigi, s.g. gennaio 1919, ASE, Z, 13)


Date tali perplessità, la questione non aveva seguito. Nell'agosto 1924, tuttavia, il Capo dell'Ufficio del Contenzioso e della Legislazione del Ministero degli Esteri, Montagna, tornando sull'argomento, esprimeva la seguente opinione:

«Avendo ora studiato attentamente la questione, quest'Ufficio rileva che le osservazioni della Regia Ambasciata di Parigi non trovano nei precedenti storici il supposto fondamento. Il trattato di Campoformio nulla dispose circa le opere d'arte; e cioè non ne legittimò il possesso della Francia e neppure ne impose la restituzione. Sicché, la controversia, per nulla definita da quel trattato, rimase integra nei suoi termini originari; e va giudicata in base ai fatti storicamente accertati ed ai principi generali di diritto. I quali fatti e principi generali non sono in favore della Francia. La Biblioteca Ambrosiana era ed è un istituto privato, i cui tesori artistici avrebbero dovuto essere rispettati dall'invasore; viceversa, appena qualche giorno dopo l'ingresso di Napoleone a Milano, il Signor Jacques Tinet addetto all'armata d'Italia per raccogliere gli oggetti d'arte e di scienza "degni di essere inviati a Parigi" si fece consegnare dall'Ambrosiana tredici volumi di manoscritti vinciani, i quali furono spediti a Parigi, ove giunsero dopo molte peripezie il 25 novembre 1796, e furono destinati parte alla biblioteca nazionale, parte all'Istituto di Francia. Su questi fatti non potrebbe sollevarsi alcun dubbio: essi sono testimoniati da scrittori anche francesi [...]. Avverso la nostra domanda di restituzione il Governo francese non potrebbe validamente opporre l'eccezione della prescrizione. Non è dubbio che la controversia sia da risolvere secondo le norme del diritto internazionale; ed è del pari certo che al diritto internazionale è estraneo l'istituto della prescrizione. L'indole stessa dei rapporti internazionali, la sicura certezza e stabilità delle prove molto spesso risultanti da avvenimenti e da documenti storici tolgono al decorso del tempo l'efficacia creativa o estintiva del diritto nei rapporti internazionali, a meno che al decorso del tempo non si aggiungano manifestazioni di volontà degli enti interessati, come atti di acquiescenza al fatto lesivo del diritto od un esplicito riconoscimento risultante da accordi o da trattati. Orbene, nessun atto di acquiescenza fu mai compiuto dalla Biblioteca Ambrosiana; che anzi frequenti sono state le sue petizioni e proteste al Governo francese rimaste senza risposta. Né vi fu mai, nei successivi accordi internazionali, cenno di riconoscimento da parte dei Governi stranieri stabilitisi in Italia o del Regio Governo dopo che l'Italia fu ricomposta in unità. Già è stato rilevato che il trattato di Campoformio non toccò la questione; si deve ora aggiungere che neppure vi fecero accenno [...] la convenzione militare di Parigi e il trattato di pace 30 maggio 1814 imposto dalle Potenze Alleate alla Francia. La contraria asserzione - che trovasi ripetuta da storici francesi e, duole il constatarlo, da storici italiani - è nettamente smentita dai documenti diplomatici pubblicati dal Martens (Nouveau Recueil de Traités, tome II 1814-1815), e specialmente dalla corrispondenza scambiata fra il Visconte Castlereagh Ministro degli Esteri d'Inghilterra e il Duca di Wellington. Dalla quale corrispondenza risulta che i Commissari francesi non mancarono di compiere il tentativo di conservare almeno in parte i tesori artistici asportati dall'armata di Napoleone, tentativo che venne decisamente respinto. Essendo riuscite vane tutte le trattative pacifiche, i capi degli eserciti Alleati ritirarono manu militari dal Louvre gli oggetti reclamati. Gli scrittori francesi di diritto internazionale, i quali criticano questa che il Wellington chiamò "grande leçon de morale" per la Francia, sostengono che si dovesse allora distinguere fra gli oggetti d'arte strappati in seguito alle vittorie napoleoniche, e gli oggetti ceduti alla Francia in virtù di trattati. I primi - secondo l'avviso di quegli scrittori - dovevano essere restituiti agli interessati, gli altri sfuggivano a qualsiasi rivendicazione. (Cfr. Rouard de Card: La guerre continentale et la propriété cap. II p. 99 e seg.; nonché il recentissimo Traité de droit international public del Fauchille, vol. II, § 1180). Di tale opinione conviene prender nota, giacché essendo stati i manoscritti vinciani asportati senza che nessun trattato ne legittimasse la cessione, essi dovrebbero essere restituiti secondo le dottrine professate dagli stessi pubblicisti francesi. Un'altra obiezione che il Governo francese potrebbe tentare di opporre alla nostra domanda di rivendicazione, è che verso la fine del secolo XVIII le leggi di guerra ancora non tutelavano la proprietà privata, e ne tolleravano le violazioni, anche quelle che non fossero richieste dalle necessità della lotta. Ma neppure quest'argomento sarebbe fondato. Le rapine di oggetti d'arte, cui le armate napoleoniche si abbandonarono durante la campagna d'Italia con l'aiuto di speciali commissari, furono biasimate da tutto il mondo civile, come contrastanti ai principi umanitari che già si erano affermati nella coscienza dei popoli e nella pratica internazionale. "Ce genre de spoliation, scriveva il Lanfray nella sua Histoire de Napoléon, inouï dans le monde depuis la fameuse prise de Corinthe par les Romains, est peut-être celui qui contribua le plus à soulever les peuples contre nous et avec justice; car leur dérober les oeuvres du génié c'était en quelque sorte les dépouiller de leur passé et de leur gloire" . Sin dalla metà del secolo XVIII - contro la dottrina del Grozio e del Vattel che ammettevano la liceità del bottino in danno dei privati - il Wolff aveva enunciato una teoria restrittiva che negava in via di principio il diritto al bottino. "On peut recourir à cette voie - scriveva il Wolff - lorsque les contributions ne sont pas payées; et c'est alors une explétion de droit, mais qui devrait être renfermeé dans les bornes convenables" (Wolff, Principes du droit de la nature et des gens, Vol. III. p. 313, Amsterdam 1758). Questa teoria era venuta poi affermandosi in senso sempre più restrittivo, soprattutto dopo che gli scrittori di filosofia, auspice il Rousseau, avevano messo in rilievo che la guerra è lotta contro gli Stati non contro gli individui. Fu così che come prodotto delle speculazioni dottrinali e sotto l'impulso della pubblica opinione venne nettamente formulato nel campo del diritto internazionale il principio del rispetto della proprietà privata da parte degli eserciti belligeranti, almeno per quanto si riferisce alla guerra terrestre. Lo stesso Napoleone dopo che fu coronato Imperatore si dimostrò più sensibile alle correnti della pubblica opinione e tenne a inserire in una lettera al Signor Armstrong, che porta la data del 22 agosto 1809, la seguente menzognera asserzione: "Dans toutes ses conquêtes la France a respecté les propriétes particulières". Poiché, viceversa, ciò non era vero, ed in Italia, in Prussia in Olanda egli aveva ordinato innumerevoli spoliazioni di oggetti d'arte anche in danno di privati, i Governi Alleati, dopo l'ingresso delle truppe in Parigi, stigmatizzarono quelle spoliazioni proprio in nome del diritto delle genti. Nella citata nota 11 settembre 1815, il visconte Castlereagh, pur rendendo omaggio alla gloria militare del popolo francese, aggiungeva: "Pourquoi faut-il associer sa gloire militaire à un système de pillage, par l'adoption duquel, en contravention aux lois de la guerre moderne, le chef qui l'a conduit au combat a dans le fait terni l'éclat de ses armes?" Vi sono dunque molte testimonianze storiche le quali escludono che l'asportazione dei manoscritti vinciani fosse giustificata dal diritto e dalla coscienza del tempo. E del resto il carattere antigiuridico del fatto doveva essere ben presente al Governo di quel popolo che nella rivoluzione dell'89 aveva proclamati i diritti del cittadino, e non poteva sfuggire alla coscienza e al genio dell'Uomo fatale, che pochi anni dopo promulgò il codice, detto appunto napoleonico, il quale è forse l'opera legislativa più insigne dell'evo moderno. V'è poi un'ultima considerazione che conferma l'illegittimità del possesso dei manoscritti vinciani da parte della Francia. Nell'ottobre 1815, dopo la caduta di Napoleone, essendo state iniziate le pratiche della restituzione, il Barone Ottenfels, Commissario austriaco incaricato di ritirare i tredici manoscritti vinciani, riceveva in consegna solo quattro volumi e rilasciava la seguente ricevuta: "Le soussigné reconnaît avoir reçu de Messieurs les conservateurs administrateurs de la Bibliothèque du Roi les manuscrits..., à l'exception de neuf volumes de la main de Leonardo da Vinci lesquels d'après la déclaration de messieurs les conservateurs ne seraient point arrivés à la Bibliothèque du Roi". Putroppo, però, tre dei volumi ritirati dall'Ottenfels non erano manoscritti di Leonardo, bensì copie tardive di taluni suoi frammenti. Sicché, i conservatori della Biblioteca nazionale non solo occultarono il luogo al quale i dodici manoscritti vinciani erano stati destinati (Istituto di Francia), ma concorsero con atti positivi ad ingannare il barone Ottenfels gabellandogli come manoscritti autentici di Leonardo copie di nessun valore. Quindi il possesso di quel manoscritto, che era stato iniziato con la violenza, fu mantenuto con la frode. Non è d'uopo insistere sulla gravità di questa circostanza, né fermarsi a mettere in rilievo come anche nel 1815 la frode non fosse ammessa fra i metodi di azione di un governo civile. Dalle esposte constatazioni ed osservazioni si desume che la rivendicazione dei manoscritti vinciani si presenti giuridicamente ben fondata. E' tuttavia da prevedersi che la Francia persisterà nel rifiuto sia per l'inestimabile pregio dei manoscritti di Lonardo, sia per il timore di stabilire un precedente che possa essere invocato in appoggio ad altre rivendicazioni. Sicché se l'azione del Regio Governo dovesse limitarsi ad una richiesta pura e semplice per il tramite diplomatico, vi sarebbe, sì, l'affermazione del nostro diritto, ma con poche speranze di successo. In tali condizioni di cose si presentano come meritevoli di esame due possibili soluzioni: o l'offerta alla Francia di qualche oggetto d'arte, che la interessi, in cambio dei manoscritti vinciani; o il ricorso ad un organo internazionale, il quale non potrebbe essere che la Società delle Nazioni o la Corte Permanente di Giustizia Internazionale dell'Aja. Forse non sarebbe inopportuno considerare insieme entrambe le soluzioni».
(Parere di Montagna, Roma, s.g. agosto 1924, ibidem)-


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